
Ero sedicenne o giù di lì quando ascoltai alla Scala “Un ballo in maschera”. Essa entrò prepotentemente con il suo fascino mozartiano del teatro nel teatro, e l’inesauribilità dell’invenzione musicale mi travolse e fa venir le pelle d’oca ancora oggi. Nella edizione zeffirelliana (dico per identificarla non altro) il teatro milanese ne fece una barcata di recite, e così vidi ed ascoltai Domingo, Carreras, Pavarotti, Cappuccilli, Bruson, Caballé, Gencer, Zampieri, Verret, Cortez, Obratsova, Guglielmi, Roni, Foiani. Dirigevano Gavazzeni, Molinari Pradelli e ovviamente Abbado.
Il quintetto Pavarotti-Cappuccilli-Verret-Obratsova-Abbado era il top e purtroppo l’ho in memoria ogni volta che ascolto: chi non ha sentito il tenore modenese allora (con Cappuccilli poi) non ha idea della bellezza materializzata. Ma non è di questo che voglio dire. No.
Nel novembre scorso annunciato il titolo ho subito prenotato a 15 euro un posto di Galleria, non per altro, ma per ascoltare la musica, avrei sì visto quello che mi veniva offerto, una comoda poltrona, dell’aria condizionata (siamo a Luglio), una acustica buona malgrado tutto. Poi si sa come sia andata. Così con una per nulla adeguata più che triplicata cifra, eccomi catapultato sul soffitto, munito di cuscinetto regalo offerto dallo Sponsor (potevi portartelo a casa; lo han fatto tutti!), timoroso di possibili 30 gradi sino alle 24 con umidità del 90%, anche se Pereira deve essersi dato daffare con le sfere celesti, approntando, compresi nei 50 euro, una fresca serata estiva, con spettacolare panorama sulla Città del Giglio. Che volere di più?
Fidarsi è bene, ma non fidarsi meglio. Sì, perché a leggere la recensione (e solo a quella mi riferisco!) entusiastica e plaudente del “Corriere fiorentino” del 17 luglio, trattavasi di spettacolo in cui da tempo al Maggio non si sentiva un cast così omogeneo per pertinenza di ruoli e qualità vocali. Non solo: la Cavea è il luogo ideale per fare l’opera e musica, acustica perfetta, dice lui. Tutto falso o molto approssimativo. Per questo uno deve andare ed essere sul posto, là dove Toscanini vorrebbe che si giocasse a bocce, perché all’aperto gli eventi sono immancabilmente di serie due se non tre.
Sia chiaro che la suddetta cifra (alludo a chi ha pagato pienamente, con o senza voucher), non vale menomamente il risultato offerto, la metà del costo più economico, era già tanto. Però, cuscino a parte, c’erano diversi optional aggiuntivi. Pubblico eterogeneo: signore in lungo (straniere), qualche giacca, sandali, mocassini, gente allungata con le gambe penzoloni, molti in mascherina ma non tutti. Infatti il solito solerte “mascherello” di cui ho parlato a suo tempo, ed un suo collega, hanno redarguito chi non l’aveva, distanziando opportunamente improbabili congiunti.
Malgrado l’assoluto divieto di tenere acceso lo smartphone, un alto dirigente del Maggio ha spippolato in piena esecuzione sul dispositivo, sia pure-spero-silenziato. Un responsabile della recita è arrivato in borghese e seduto a quello accanto (la mascherina da bandito impediva di riconoscerlo, ma i grigi capelli lo tradivano). Ma cosa ci fa se dovrebbe essere laggiù, tra gli esecutori a controllare? Comunque dieci minuti alla fine l’abbiamo visto ricomparire in smoking per gli applausi finali sul non-palcoscenico.
Un noto critico e musicologo locale, due posti davanti a me, ha letteralmente doppiato in mimica gestuale l’intera partitura affidata ad un Carlo Rizzi che deve aver ascoltato troppo l’edizione di Toscanini e di Muti (averli!). Ne è risultata una schizofrenica commistione di tempi velocissimi con evidenti difficoltà di articolazione del suono tanto da parte degli strumentisti, che delle voci e di altri allargati alla “Maesschtre”, ma della coesione, del rigore dei due sopra detti, manco l’ombra. Credo fosse una edizione “facciamo presto entro la mezzanotte”.
Il caso ha voluto che una delle poche opere in cui il palcoscenico è quasi obbligatorio (persino in partitura, ossia nel compiuto testuale) e la forma concertistica riveli spudoratamente la mancanza (e necessità) del luogo scenico, sia proprio questa coi suoi effetti tridimensionali, stereofonici, di lontananza (finale II), banda interna, orchestrina sul palcoscenico nel ballo finale. Senza contare che allorchè il vento si alza le note fuggono. Ci si arrangia dunque, chi suona, canta ed ascolta.
Acustica. Si sente. Ci mancava che per 50/100 euro non si sentisse. Ma non crediate a quelle meraviglie che vi contrabbandano, quasi si senta meglio che nella sala chiusa. Proprio per niente. Legni e strumentini svettavano e perforavano tanto che questa potrebbe trattarsi di una versione del “Ballo” per ottavino, flauti e gli altri in subordine; gran cassa che si rifrangeva sui muri perimetrali della Cavea ed equilibri dello strumentale impossibili da riacciuffare. Coro diviso e posto ai lati tipo fiamminghi.
Le voci. Sempre con riferimento alla recensione del “Corriere” l’unica omogeneità vocale di questo cast, è stata una certa piattezza e se ciò fa armonico, allora il critico ha detto la verità. Compreso Meli che canta non sempre bene, vale a dire male, ogni tanto è Riccardo ma più spesso “io te vurrìa vasà”, ma di applausi e “bravo” ne ha ricevuti tanti e sonori, un po’ troppi e un po’ troppo evidenti per essere tutti autentici e disinteressati.
Alvarez ha cannato nel finale della sua romanza del III atto ma ha fatto come la Divina. La quale anch’essa clamorosamente sbagliò, scatenando l’ira e i buu del teatro americano, alzò (Ella) una mano per imporre il silenzio, fece un cenno al direttore di ripetere quel particolare, lo eseguì stavolta alla perfezione scatenando un nuovo delirio, stavolta di applausi e consensi. Così a Firenze ier sera. Prontezza professionale di cantante e direttore. Ma è un po’ circense (agli operomani piacciono un pozzo codeste cose!): sarebbe come se un giocatore di calcio, mancato un gol, alzasse la mano e chiedesse di ripetere (ho sbagliato!!!) e facesse gol stavolta.
Gli altri cantanti li lasciamo agli esperti vocali, quelli veri e quelli finti. Io me ne sono andato senza applaudire alcuno (solo Beppino in cuor mio): il Sovrintendente voleva che per 50 euro applaudissi pure?
ag
19 luglio 2020
